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Dal Catalogo Astropop

Testo Di Luca Beatrice

Sembravano proprio dei vecchi cowboy con la tuta al posto dello spolverino quegli uomini che si avventurarono nello spazio, girando e rigirando intorno all’orbita celeste prima di mettere i piedi sulla luna, il 21 luglio 1969. Non potendosi portare troppi oggetti da casa, in diverse missioni gli astronauti scelsero di farsi accompagnare dalla musica che con la sua immaterialità può riempire spazi pur non avendo corpo fisico. Si deve ad Alan Bean, quarto uomo a camminare sulla luna che quando si ritirò a vita privata intraprese con una certa qualità l’attività di pittore, la scelta di una raccolta musicale, oggi playlist, niente affatto banale. Swing, lounge, cocktail i generi prediletti nella missione Apollo 12: Fly me to the Moon, cantata tra gli altri da Peggy Lee e Frank Sinatra, alcuni brani bossa nova di Astrud Gilberto. Neil Armstrong, che aveva gusti più classici, si fece riversare su nastro la Sinfonia del nuovo mondo di Dvorak, tranne poi sorprendere i compagni di viaggio con uno strano album di exotica basta cercare su Spotify Music Out of the Moon, inciso nel 1947 da Les Baxter e Samuel J. Hoffman, “il più celebre suonatore americano di theremin”, ribattezzato più tardi Moog dal nome del suo inventore. Proprio questo sottogenere di puro intrattenimento, tornato alla ribalta negli anni ’90 con il diffondersi della moda retrò, in diverse sfumature che vanno dal cocktail alla lounge, dallo space al chillout, risulta la perfetta colonna sonora delle immagini che vediamo nelle opere di Giancarlo Montuschi. Per intenderci, stiamo parlando di un artista dai mille interessi, colto, curioso che di queste sue doti ha fatto tesoro, utilizzandole ampiamente nel suo lavoro e, soprattutto, un gran conoscitore di musica mentre un gruppo di giovani artisti inglesi che si ritrovano all’ICA di Londra progettano e allestiscono una mostra alla Whitechapel da titolo This is Tomorrow. La parola futuro entra dunque nel dizionario del decennio, la guerra, le dittature, le distruzioni sono alle spalle e finalmente si respira un’aria nuova, un’idea di progetto. Il piccolo collage di Richard Hamilton, Just what is it that makes today’s homes so different, so appealing, contiene buona parte delle chiavi d’accesso per comprendere la nuova cultura pop. C’è buona parte dei nuovi mezzi di comunicazione e di riproduzione di massa: cinema, radio, televisione, giornali, registrazione. C’è l’ultimo modello di aspirapolvere per tenere pulita la casa, diversi oggetti di design e arredi, una confezione di carne in scatola, un uomo e una donna seminudi perché l’arte deve essere sexy. C’è la scritta POP che sembra più un logotipo che l’abbreviazione di “popular”, il significato non rende appieno ciò che stiamo vedendo. Da non trascurare, infine, la grande luna e il cielo stellato, quasi contrapponendo alla scena di assoluta modernità l’immobilità, il silenzio, di notti sempre uguali. Di questi cieli blu e profondi chissà quanti ne ha visti Giancarlo Montuschi nella quiete della sua casa in campagna, pochi chilometri dal centro di Anghiari, che gli storici dell’arte riconducono a Leonardo e i beninformati all’autobiografia. Non è detto, infatti, che gli alieni per atterrare scelgano per forza la città, in mezzo al verde c’è più spazio e meno insidie, vuoi mai che si trovino bene con umani pacifici abituati ai lavori campestri e ai tempi dilatati invece dei frenetici e nevrotici metropolitani dai polmoni inquinati. In estate ho visitato lo studio di Giancarlo, un ex fienile attiguo all’abitazione ricavata in una vecchia chiesa, un posto magico dove è facile immaginare quiete e raccoglimento, in mezzo a libri, cataloghi, dischi, una sofisticata collezione d’arte, insomma tutto ciò di cui un uomo ha davvero bisogno per stare bene. Vive insieme a Magda, simpaticissima, complice creativa ed eccellente cuoca. I dipinti della serie Astropop sono nati qui come tutti i loro predecessori, organizzati attraverso un collage di idee e immagini dal sapore vintage e dalle cromie squillanti e fluorescenti. L’artista si è “divertito” (si, passatemi il termine, non intravedo alcun tormento nella sua ispirazione a meno di non considerare tale quel sapore di nostalgia novecentesca che bene o male prende chiunque sia nato e abbia vissuto parte della sua esistenza nel secolo breve, rispetto a ciò che offre il mondo di oggi) a mettere in fila e combinare una nutrita serie di stereotipi e archetipi originati appunto dalla cultura pop. Le “citazioni” delle pompe di benzina, delle insegne di fast food, i cartelloni pubblicitari, coppie patinate che sembrano uscite da Hollywood, automobili americane, sportive, berline e pickup, razzi, astronavi, navicelle spaziali, insomma tutto l’armamentario utile per una speriamo pacifica invasione della terra. Con la consapevolezza che nessuno potrà mai farci più male di quanto ce ne procuriamo da soli, noi scellerati umani, il peggior pericolo di noi stessi. Nel dialogo che segue ho chiesto a Giancarlo Montuschi di raccontarsi e raccontarci il suo originale percorso di cui Astropop è l’episodio più recente. Posso intanto testimoniare di aver incontrato un artista sorprendente, nell’invenzione e nell’umanità. Speriamo di diventare amici, di discutere delle tante passioni in comune, sfogliando un libro, ammirando qualche rara edizione d’arte, buttando l’occhio tra le mille curiosità raccolte e accatastate nelle stanze in un ordinatissimo disordine. Intanto, andiamo a raccontare le immagini dei suoi lavori attraverso questo bel libro contando nell’ammirazione dei terrestri e dei marziani.

 

Domande e risposte

Luca Beatrice – Giancarlo, come hai cominciato? Qual è la tua formazione culturale e quando hai deciso che avresti fatto l’artista… Ti prego, non dirmi fin da bambino come usano in molti.

 

Giancarlo Montuschi- Il mio percorso artistico è cominciato alle scuole medie, all’Istituto d’Arte di Faenza, dove gli ambienti, le aule e i professori erano gli stessi delle superiori. Qui ho appreso la conoscenza delle tecniche pittoriche e grafiche, i rudimenti sull’arte ceramica, le tecniche di lavorazione dell’argilla e della cottura. Alcuni insegnanti di pittura mi hanno indirizzato a proseguire gli studi, viste le mie capacità grafiche e compositive, e mi sono trasferito al Liceo Artistico di Bologna, che al tempo usufruiva degli stessi ambienti della Accademia di Belle Arti; le aule di scultura, di pittura, la gipsoteca, diversi docenti erano “prestati” dall’Accademia al Liceo, altri provenivano dal Liceo Classico. L’ambiente culturale era dunque molto stimolante, il classico andava a braccetto con l’esperienza artistica, e poi era il 1968 e intorno a noi si agitava un cambiamento epocale. In molti maturammo la sfida di affrontare la carriera artistica, ricordo tra i miei compagni di liceo Piero Manai che purtroppo morì molto giovane a soli 36 anni. Ci perdemmo di vista, ci incontravamo solo all’Arte Fiera dove ogni volta parlavamo dei nostri progetti, sogni, le difficoltà nell’ambiente in cui ci stavamo inserendo. Poi ci furono i due anni di Accademia, a Bologna e a Ravenna, che interruppi per affrontare il mondo del lavoro che mi avrebbe permesso di sostenere la ricerca artistica, almeno nella prima fase.


LB- Da Bologna ad Anghiari, dalla città alla campagna. Da un ambiente molto stimolante alla vita in provincia. Perché questa scelta?

GM- La scelta non fu facile. Maturò in quegli anni ’70, tra i tanti fermenti culturali, forse un tempo mai più ripetutosi fino a ora. Decisi di tornare in campagna per una vita più vicina alla natura. E fu doppiamente difficile perché dopo i due anni di Accademia ero entrato a lavorare alla Faenza Editrice come correttore di bozze, poi grafico, fotografo e infine inviato speciale. Qui iniziai ad appassionarmi alla cultura esoterica che aleggiava nella redazione della rivista “Scienza e Ignoto” e venni in contatto con molti personaggi, tra questi il “dottor” Massimo Inardi, campione del Rischiatutto di Mike Buongiorno, lo scrittore Leo Talamonti esperto di parapsicologia e scrittore di mondi e universi, Pier Carpi che passò dal fumetto all’esoterismo e alla regia cinematografica. Su tutti aleggiava la figura di Gustavo Rol, di cui sono certo che nei pochi attimi in cui i nostri sguardi si sono incrociati mi abbia trasmesso qualcosa di veramente importante: il dono della creatività. La campagna, dicevamo quindi. Per il trasferimento fui agevolato dall’avere vinto una cattedra di pittura per la quale potei scegliere tra Piemonte e Toscana, le due zone da cui ero attratto maggiormente, Scelsi la Toscana e venni ad abitare a Sansepolcro, la città di Piero della Francesca, in seguito mi trasferii ad Anghiari famosa per la sua battaglia, il cartone perduto di Leonardo da Vinci. La scelta non fu automatica, vinsero la possibilità di essere titolare di cattedra al liceo artistico e poter scegliere il part-time, che mi permise di perseguire la mia ricerca artistica in compagnia di mia moglie Magda, ceramista tornata dalla Francia, e di costruire insieme il nostro atelier. Il fatto di trovarmi in un crocevia facile, da Milano a Roma, da Rimini a Grosseto con vicino Firenze e Perugia, era strategicamente perfetto per gli incontri, e la zona si trova in una terra stimolante per l’arte, avevo nel giro di 10/15 chilometri da una parte Il Vasari ad Arezzo, Piero della Francesca a Sansepolcro, Caprese Michelangelo la terra dove nacque il Buonarroti, e a sud Città di Castello con Alberto Burri. Qui non potevi fare l’artista così, tanto per fare…

LB- Ti esprimi tendenzialmente per lunghe serie pittoriche -se si può ancora c o m p l e t a m e n t e parlare di pitturache sviluppi per tanti episodi e a un certo punto e s a u r i s c i . Quando si può dire che un lavoro sia veramente finito e perché?

GM- Si, una delle mie caratteristiche è proprio questa, dedicarmi alla ricerca artistica nella forma di “hortus conclusus”, sviscerare la tematica in modo concettuale per poi passare ad altro, attraverso un filo conduttore, che capisco per molti possa essere difficile da intuire in quanto scaturisce principalmente dalla mia vita, dai miei interessi culturali e visivi. Considero la pittura soprattutto un mezzo per esprimere i concetti che inserisco nell’opera. Quando un lavoro lo considero veramente finito? Bella domanda. Il mio lavoro non finisce mai nell’opera a cui sto lavorando al momento, lo considero finito solo quando nel mio studio, abbastanza grande, posso comporre come in una mostra i capitoli di questa lunga serie, quando i riferimenti concettuali che prendono vita nella mia biblioteca, prima reale poi virtuale, sono stati sviscerati completamente attraverso una serie di bozzetti, che vanno dal disegno preparatorio alla scelta dei colori e attraverso la mia conoscenza dei programmi digitali, per poi trovare vita in un processo pittorico nel quale cambiano ancora e fissarsi sulla tela definitivamente. Credo che il segreto per comprendere un’opera sia quello di visitare gli studi, i luoghi dove operano gli artisti… Questa convinzione l’ho maturata viaggiando a mia volta e incontrando i miei colleghi nelle loro “tane” dove, come d’incanto, tutti i frammenti del puzzle della creatività vanno al loro posto.

LB- La tua arte indaga in profondità il mondo dell’illustrazione, dei media, del fumetto, della comunicazione, del cinema e della tv. A rimanerne fuori, paradossalmente, sembra proprio la pittura. Perché? E’ solo un’impressione?

GM- Si è vero, il mio lavoro rispecchia l’amore per il mondo dell’illustrazione -soprattutto americana- e dei fumetti. Iniziai a interessarmene negli anni ’60 con le collezioni Spada, Flash Gordon, Mandrake, l’Uomo mascherato, poi il Principe Valiant, le avventure del quasi omonimo Michel Vaillant asso del volante… Ma divoravo di tutto: il nostro Nembo Kid alias Superman, Topolino. E nel frattempo ho indagato il mondo della comunicazione fin dai tempi di Carosello e il grande cinema americano a partire dai classici degli anni ‘30. La pittura ne rimane fuori, in parte, nel senso che ho sempre affermato che molti della mia età si sono formati soprattutto sul mondo dell’illustrazione, dalle fantastiche copertine dei dischi “di importazione” dove primeggiavano grandi illustratori, primo tra tutti Roger Dean che disegnò quasi tutti gli album degli Yes. La copertina è stata una forma di espressione di artisti e quindi essa stessa è una espressione dell’arte. Molti generi musicali erano ben definiti, oltre che dai canoni sonori, anche dalle immagini, disegni o fotografie. I colori accesi e le figure indefinite caratterizzano i tratti della psichedelia (penso a 13th Floor Elevators, Iron Butterfly, Cream), la fantasia dei disegni e gli scenari immaginari quelli del genere progressive (Genesis, King Crimson), lo studio grafico Hipgnosis per i dischi dei Pink Floyd, lo studio Neon Park per la discografia dei Little Feat. Gli album, in quegli anni, erano un capolavoro della musica custodito a sua volta in un capolavoro visivo

LB- Le matrici culturali del tuo lavoro sono indubbiamente alte, a partire dalle letture. Come si conciliano con la ricerca iconografica in un universo invece più basso?

GM- Potrei risponderti con la frase della tavola smeraldina: «È vero senza menzogna, certo e verissimo, che ciò che è in basso è come ciò che è in alto e ciò che è in alto è come ciò che è in basso”. Ma più semplicemente, molte delle grandi narrazioni, cosi come la grande musica, traggono ispirazioni da un mondo basso, da una cultura popolare, appunto pop. Fin dalla Grecia antica dove gli Dei compivano, in modo spettacolare, le stesse gesta umane, o come nei fumetti dove Clark Kent altri non è che il Superman che proviene da Krypton e il suo vero nome è Kal-El… La passione per le saghe islandesi, che miravano a rispecchiare la realtà, non lasciando spazio all’immaginazione e lasciandone molto poco all’elemento soprannaturale, o delle epopee indiane come il il Mahabharata che è portatore anzitutto di un messaggio spirituale. O la grande letteratura americana, che amo molto, con le storie delle piccole e grandi comunità urbane ed extraurbane. Diciamo che amo definirmi uno storyteller un po’ fantasioso.

LB- Chi reputi i tuoi maestri, i tuoi punti di riferimento nel modo di fare arte?

GM- L’elenco potrebbe essere molto lungo, direi che sono partito dal Surrealismo, da Giorgio de Chirico a Magritte, poi in età più matura, quando già lavoravo nei primi anni ‘70 mi trovavo senza ben saperlo nella Pop che era partita già dieci anni prima. Certamente mi ha influenzato la Pop americana, non tanto Andy Warhol quanto James Rosenquist, Roy Lichtenstein, Tom Wesselmann, e poi gli inglesi, soprattutto David Hockney. In Italia amo molto il lavoro di Concetto Pozzati che fu mio professore a Bologna, dei milanesi Emilio Tadini e Valerio Adami, di Tino Stefanoni, amici e compagni di viaggio.

LB- Dove e quando nasce “Astro Pop”? Cosa lo ha ispirato e dove guarda?

GM- “AstroPop” nasce alla fine del 2018 ed è l’ultima mia serie in ordine cronologico. A volta si dice che l’artista precede i tempi…..ecco qui è successo. Era un lunedì qualunque... andai in studio, ero preso da un progetto, una serie sulla curva temporale che ha la dimensione del sogno Da Giotto a de Chirico passando per Carrà senza dimenticare Casorati fino al Realismo Magico, curvando poi verso una dimensione Gothic Pop . Si, pensai, la curva temporale ha la dimensione del sogno nella sua metafisica spaziale. Avevo letto un saggio di Mario Andrea Rigoni dove si affermava, “…nel nostro tempo il posto della metafisica è stato preso dalla fantascienza: sostituzione forse non casuale, della quale non c’è comunque da rammaricarsi, visto che questa non è meno legittima né meno emozionante di quella”. Una serie precedente, “The Past In The Future”, traeva ispirazione dal modo in cui il futuro era stato immaginato nel passato e “Astro Pop” ne è un po’ il seguito, che era basata più sul mondo dei fumetti, mentre questa nuova voleva e s p r i m e r e un disagio che sempre più sentivo…un isolamento dal mondo e senza rendermene conto poi, da li a poco, giunse la pandemia… Ecco quel disagio che vivevo da campagnolo si trasformò in una nuova realtà mondiale, paragonabile forse alla Spagnola, che fra il 1918 e il 1920 uccise decine di milioni di persone nel mondo, o alla crisi tra il 1929 e 1932 in America ben espressa da Hopper nei suoi quadri. La pandemia che arriva oggi proprio a cinquant’anni da uno degli eventi memorabili della storia dello spazio: quelli dallo sbarco sulla luna della navicella spaziale Apollo 11, che ha compiuto il primo allunaggio della storia. 2 + 2 fa 4 e cosi “Astro Pop” anticipò la più grande crisi causata da un virus nel momento stesso in cui siamo atterrati su Marte con una sonda che ci permette di conoscerne la natura e progettare la sua colonizzazione. Questa serie è tuttora in progress: mi domando, dove sta andando? Difficile da dire, ora le astronavi lasciano il passo a cieli stellati vuoti, i riferimenti al passato pittorico si fanno più chiari, la bidimensionalità lascia il passo ai Time-Boxes, teche di plexiglass che contengono come fondo la tela dipinta e, per ora, modellini di auto prodotte tra gli anni ’40 e ’70, creando un pitto-rama temporale che attraversa il tempo conservandone alcuni aspetti e, forse, profetizzandone altri. Una fonte di ispirazione fu la serie tv “Under the Dome” scritta da Stephen King e prodotta da Steven Spielberg; in queste teche di plexiglas una serie di oggetti e di panorami della pittura passata che amo si ritrovano insieme, tagliati fuori dal loro contesto ne creano un altro. Cosi, per me, il passaggio da Storyteller a Psychonauta diventa sempre più breve, dal 2019 ho abbracciato un termine che forse può chiarire meglio il concetto artistico: “Fiction Painting”, titolo del mio precedente catalogo .Cosa può comunicare…non so per voi, per me quello che disse Pierre Auguste Renoir calza a pennello: “quando si tratta di un paesaggio, amo quei quadri che mi fanno venir voglia di entrarci per andarvi a spasso.”

LB- Tanta musica influenza la tua ricerca e non ha alcun dubbio nell’affermare che suonano davvero bene: psichedelia, pop, exotica, space. Il clima è indubbiamente vintage. C’è un po’ di nostalgia? Per non parlare del cinema…

GM- Nostalgia? Forse un pizzico avendo vissuto gli anni ’70 dove psichedelia, pop, exotica, space hanno preso vita, ma oggi questa musica ha un altro aspetto e, secondo me, non ha nulla da invidiare ai tempi passati. Oggi si sono moltiplicate le etichette musicali, le majors hanno perso terreno rispetto ala creatività… forse questo sta succedendo anche nell’arte, trovo molto più interessante la creatività di molti “piccoli” o meglio nuovi creativi che sfuggono alle catalogazioni e alle sirene dell’arte di serie A… a volte trovo meglio la B anzi la C, proprio come nella musica. Stessa cosa nel cinema, chi avrebbe mai detto che alcune proposte di Netflix siano, a volte, meglio di quella della grande produzione? Le epoche passano, i tempi cambiano, la curva temporale viaggia a ritmi sostenuti. Chi può dire come sarà il futuro, possiamo solo ipotizzarlo. La musica, il cinema, la letteratura hanno un enorme influenza sul mio lavoro…più della pittura in sé.

LB- Da Anghiari, il paese della battaglia del cartone leonardesco e dell’autobiografia, ai cieli degli anni ’50 dove russi e americani se ne davano di santa ragione ai tempi della Guerra Fredda. Ma tu ora cosa vedi quando di notte guardi le stelle?

GM- María Teresa Ruiz González, astronoma cilena, presidente dell’Accademia delle scienze dal 2015 ,ce lo racconta in un libro affascinante che passa in rassegna l’evoluzione dell’universo dal Big Bang fino a oggi per poi andare oltre, presentandoci la Terra e l’umanità come piccoli tasselli di un affresco di proporzioni inimmaginabili. Io vedo questo, un puzzle temporale da ricomporre, guardo le stelle e mi domando : ma questo è veramente tutto ciò che esiste, o è solo un universo fra infiniti altri? L’arte ci permette di uscire dal mondo reale e vederne sempre più aspetti nuovi, spesso precedendo la scienza.

 


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